Io randagio
È la foto segnaletica, così densa di implicazioni da essere oggetto di un noto testo di Ando Gilardi, ad essere utilizzata da Silvio Canini per raccontare una storia alla Gabanelli maniera, di quelle sul “come è andata a finire”. E in questo caso, grazie a Stefano e Valeria, è andata bene. Già, perché il destino dei cani randagi può essere diverso, in una sorta di cinica roulette quotidiana, a seconda che a trovarli siano per primi gli accalappiacani, o quei ‘matti’ col demone dell’etica creaturale, intenzionati a sottrarli all’oblio da 41 bis - ma senza collegio difensivo, e senza tre gradi di giudizio - del canile. E poco importa in questo racconto che la foto segnaletica sia una strada retoricamente abusata; conta il valore di verità di quella metafora, il racconto di destini che s’incrociano, e che valgono a denunciare, per contro, tutte le altre storie invisibili di reclusione routinaria fatte di abbandono e maltrattamento. Linguisticamente vicino alla comunicazione da campagna/booklet per il fundrising, “Io randagio” si presenta come un articolato atto di significazione, tra le cui dinamiche la fotografia è in realtà solo uno dei linguaggi - insieme a quello testuale, e a quello grafico delle impronte - che compongono l’immagine finale. E sebbene l’io narrante abbandoni con un mutamento di prospettiva la regola di univocità, la combinazione dei tre diversi linguaggi raggiunge comunque con efficacia l’obiettivo di conferire a questi ex randagi un’identità, affiancando alla foto segnaletica il segno più inequivocabile dell’identità, quelle impronte raffigurate con un gusto calligrafico vicino ai sinogrammi orientali. È dunque grazie a questa operazione di conferimento d’identità, realizzata con il concorso della fotografia, che l’Autore strappa i protagonisti di questo racconto all’anonimato del genere indistinto dei randagi, avvicinandoli così alla nostra umanità di spettatori, e parlando, attraverso le loro vicende, della storia di ‘solidarietà’ di Stefano e Valeria.
Attilio Lauria